Un manifesto che campeggia ad altezza palazzo in corso Lodi a Milano merita qualche considerazione di tipo culturale. Si tratta della pubblicità della Intimissimi Uomo-Swimwear Collection.
La si può vedere cliccando sull'icona sottostante, tratta dal profilo LinkedIN della Calzedonia Group.
Nell'immagine, si può vedere una donna che pare buttare a mare un uomo. Lui pare prenderla con leggerezza, lei è seria. La postura, il linguaggio del corpo e la prossemica dicono unanimemente che è lei a dominare la scena e a comandare l'azione con un gesto potente; parallelamente, la sua figura è presentata con un costume ridotto, oggettivamente meno coprente di quello maschile oggetto della pubblicità. Ed è questa differenza di trattamento che merita una riflessione.
Nella pubblicità, la realtà è rappresentazione e la rappresentazione è realtà: qualcuno vietava, per esempio, di rappresentare diversamente la donna? E, rappresentandola, di renderla reale in un modo diverso da questo?
Certo, dopo un giro su Tik Tok dove migliaia di ragazze anche minorenni si espongono in maniera sessualmente non neutra per essere confermate dai like di voyeur globali, pare quasi di cercare il pelo nell'uovo. Tuttavia, a chi pensa che ci siano problemi più importanti, risponderei che sono problemi importanti la formazione dell'immaginario su cui si forma la cultura, l'accettazione di modelli mai discussi pubblicamente, la normalizzazione di comportamenti conseguente al martellamento di quei pochissimi che hanno in mano i cordoni della borsa mediale.
Mi metto comunque fin d'ora la cenere sul capo e faccio ammenda preventiva di tutte o quasi le osservazioni che possono arrivare dalla malcomprensione di quanto sto dicendo.
Non sto dicendo che una persona non si possa vestire come vuole, anche se ho un'idea estetica di cosa sia l'eleganza, l'abbinamento cromatico e, soprattutto l'opportunità di vestire in un modo piuttosto che in un altro nel contesto sociale in cui ci si trova.
Non sto dicendo che i centimetri quadrati di pelle scoperta siano inversamente proporzionali alla serietà della persona, anche se a un certo punto la riduzione all'infinito porta al nulla ed il nulla non-è, nemmeno un vestito, che diventa altro ma non un vestito: questione di fisica, questione filosofica parmenidea, non certo una questione morale.
Non sto infine dicendo che non ci sia ben altro nella storia della pubblicità, anche se a un certo punto della riflessione civile, dopo i metoo, dopo le rivoluzioni semantiche e linguistiche cui personaggi illustri stan dietro da tempo anche con proposte borderline, dopo tutto questo ci si aspetterebbe uno sguardo diffuso più acuto. Meno parole, quindi, e più fatti, anche se costano e fanno rischiare l'incomprensione, come può succedere con questo scritto.
Poi, ognuna e ognuno si vesta come vuole e si comprino i costumi da uomo pubblicizzati, che son pure belli; tuttavia il ragionar sopra le cose, il chiedersi come mai si espone la donna anche per promuovere e vendere i costumi da uomo, consente di abbassare la soglia dell'assuefazione, dando magari qualche spunto pure ai creativi nel trovare nuove soluzioni promozionali. Le generazioni future ringraziano in anticipo.
© Marco Brusati
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