Secondo le stime della Commissione Europea il PIL del 2020 calerà dell'11,2%. Secondo l'Istat sono a rischio chiusura: oltre un'azienda su tre; oltre il 40% delle micro-imprese; oltre il 60% di alberghi e ristoranti.
Secondo Bankitalia hanno riserve finanziarie per meno di tre mesi un terzo dell'intera popolazione e oltre il 50% dei disoccupati e dei lavoratori con contratto a termine; poco meno di un quinto dei lavoratori autonomi e dei lavoratori dipendenti con contratto a termine ha visto il reddito familiare ridursi di oltre il 50%.
Questa è la fotografia dei tempi, che definire straordinari è un pallido eufemismo: sarebbe meglio dire drammatici o tragici, in cui è già palpabile l'impennata della disoccupazione che manderà in fumo il substrato operoso del nostro Paese, quello esperto nell'arte di sopravvivere non solo agli eventi, ma alle sempre più ampie ed articolate richieste di un apparato statale ipertrofico e demograficamente appesantito dalle culle vuote.
In questa crisi epocale, come gli Enti ecclesiali stanno gestendo i lavoratori? Salvo lodevoli eccezioni e salvo chi è oggettivamente obbligato alla chiusura, c'è una certa tendenza a conservare i posti di lavoro a tempo indeterminato con i relativi stipendi, a non rinnovare i contratti di lavoro a tempo determinato, a chiudere le collaborazioni coordinate e «a partita Iva», nonché a ridurre i fatturati dell'indotto. In sostanza, si tende a salvaguardare i bilanci (il «capitale») a partire dal lavoro meno tutelato, in linea con quanto di norma fanno le aziende. Tutto è lecito, giuridicamente ineccepibile, aziendalmente corretto, ma, in una situazione eccezionale ed in rapido aggravamento, proprio dagli Enti ecclesiali potrebbero partire riflessioni e misure eccezionali che non temano di discutere i socio-dogmi. Inoltre si mostrerebbero anche capaci di offrire alle realtà statali e private dei modelli concreti cui ispirarsi, come è avvenuto lungo la storia: i banchi di mutuo soccorso, i monti di pietà, gli ospedali, le opere caritatevoli di assistenza all'infanzia e alle fragilità sociali, per esempio.
A questo punto posso mettere sul tavolo tre premesse, quattro riflessioni e una conclusione.
Le premesse.
1) I posti di lavoro non sono i lavoratori; salvare i posti di lavoro non è salvare i lavoratori. Nel gergo comune e nella vulgata mass-mediale «non licenziare nessuno» o «salvare i posti di lavoro» significa non mandare la lettera di licenziamento a chi ha un contratto dipendente a tempo indeterminato. Un esempio banale: se ho 1 lavoratore dipendente a tempo indeterminato e 10 lavoratori a tempo determinato e a questi 10 non rinnovo il contratto in scadenza, posso dire di aver salvato i posti di lavoro (uno), ma non di aver salvato i lavoratori, perchè 10 non avranno più lo stipendio; ancora peggio andrebbero le cose per i consulenti «a partita Iva», le cui collaborazioni possono essere interrotte con un SMS, un Whatsapp o una e-mail, quando va bene.
2) Il concetto di «posto di lavoro» ha il sapore marxiano di «forza lavoro», mentre il concetto di «persona-che-lavora» o «lavoratore-lavoratrice» afferisce alla cultura personalistica propria dell'eredità giudaico-cristiana, che, credo, dovrebbe essere un faro per chi è chiamato a dirigere un Ente ecclesiale.
3) Mentre si invita di continuo la società civile ad essere più solidale, mentre gli economisti solidaristici di stampo cattolico giustamente si svociano per ribadire la ridistribuzione del reddito a livello macro-economico tra Stati e gruppi sociali, credo sia giunto il momento di far evolvere la discussione verso un modello di redistribuzione del reddito a livello micro-economico, a partire dagli Enti ecclesiali, fermo restando il totale da distribuire, altrimenti il discorso non sta in piedi.
Le riflessioni.
1) La questione sul tavolo non è se sia giusto (lo è!) «salvare» i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, ma se, in un periodo di crisi eccezionale e diffusa, non si possa superare il modello contrattualistico puro, secondo il quale vengono riconosciuti i diritti regolati da un accordo sindacale, a favore di un modello in cui è centrale il diritto della persona ad avere un lavoro, indipendentemente dal tipo di contratto con l'Ente ecclesiale.
2) La finalità ultima non è quindi salvare quanti più posti di lavoro, ma salvare, ridistribuendo a ciscuno secondo le sue necessità, quante più persone-che-lavorano a qualunque livello della scala contrattuale siano giunti; da inizio Millennio, infatti, i posti di lavoro garantiti e ben retribuiti sono venuti meno, mentre sono cresciuti sia i lavoratori pseudo-autonomi che avrebbero volentieri lavorato con le garanzie dei dipendenti a tempo indeterminato, sia il ricorso a rapporti di lavoro più facilmente rescindibili senza «problemi» sindacali come le collaborazioni e le consulenze. Così, nella stessa struttura, non è difficile trovare persone garantite e persone non-garantite, specialmente i più giovani, magari arrivati troppo tardi per sistemarsi.
3) Per entrare nel concreto, occorre aprire un tavolo di riflessione e di trattativa per attivare negli Enti ecclesiali un patto di solidarietà per le crisi (PASC), che saranno cicliche e sempre più frequenti; nella normativa italiana già c'è l'art. 2 della Legge 863/84 che prevede riduzioni dell’orario di lavoro e della retribuzione (che possiamo ipotizzare nell'ordine del 10/15%) per favorire nuove assunzioni; se in questo periodo non è proponibile l'assunzione di nuovi dipendenti togliendo una piccola percentuale ad altri, si può pensare ad un'azione solidaristica di questo tipo finalizzata al rinnovo dei contratti di lavoro temporanei in scadenza e delle collaborazioni. Si tratta, in sostanza, di estendere la solidarietà anche ai non appartenenti alla medesima categoria contrattuale.
4) Ma non basta: occorre superare anche il mero criterio retributivo a favore di un criterio ridistributivo personale per ogni singolo lavoratore che «corregga» il reddito effettivo in base a parametri quali il numero dei figli, le spese per la casa o il mutuo, altri redditi da lavoro o capitale, il patrimonio mobiliare o immobiliare. In Italia i criteri ISEE potrebbero essere utilizzati per comprendere la posizione del singolo lavoratore in caso di attivazione del PASC, con un ulteriore correttivo a favore delle lavoratrici e delle lavoratrici madri. Questo potrebbe essere un criterio per non fare inutili e dannosi tagli orizzontali: è abbastanza evidente che 3mila euro di stipendio in una famiglia con 3 figli piccoli con mutuo prima casa non hanno lo stesso peso di 3mila euro in una famiglia mononucleare senza mutuo; così come appare lapalissiano che un dipendente che prende mille euro non ha a disposizione nulla per essere solidale.
La conclusione.
Come fare tutto questo in un sistema di relazioni industriali bloccato come il nostro? Non è semplice, ma se non si butta il cuore oltre l'ostacolo, non si arriverà mai ad alcun risultato. Queste riflessioni hanno questa finalità. E poi, chi dovrebbe dare l'esempio se non la Chiesa con il suo patrimonio antropologico bimillenario centrato sulla persona? Anche perchè la prima forma di Carità è la Giustizia e la giustizia non può che essere minimamente distributiva.
Marco Brusati
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P.S. Ho fatto queste considerazioni ben sapendo che alcuni possono togliermi saluto ed amicizia che spero di compensare con chi vorrà iniziare a beneficiarmi del suo saluto e della sua amicizia. Ma tant'è: ho telematicamente abbracciato e consolato troppe persone tra quelle di cui ho parlato che non me la sono più sentita di tacere.