Per capire come suona l'orchestra della comunicazione mainstream prendo spunto dalla partecipazione dei «La Sad» all'ultimo Festival di Sanremo con la canzone «Autodistruttivo». 

Prendo spunto, ma non parlo degli artisti, che oggi possono essere questi tre giovani e domani altri due o tre: il discorso non cambierebbe, poiché i giovani interpreti di progetti artistici sono spesso l'ultimo anello della catena di trasmissione di contenuti. Vorrei quindi evitare reazioni del tipo 'non ci sono più i giovani di una volta', perché se non ci sono più i giovani di una volta è perché non ci sono più gli adulti di una volta, anch'essi  immersi fino al collo in una vita mediale uniformante e conflittuale: come e più dei giovani.

Dunque, secondo una diffusa letteratura giornalistica di supporto al Festival, «Autodistruttivo» ha portato al popolo televisivo mainstream il tema del suicidio; il gruppo, si è detto sul palco, sostiene Telefono Amico, impegnato nella prevenzione dei suicidi; sembrano così allontanarsi le polemiche suscitate dal Codacons per testi che narrano di violenza, di una certa misoginia e di droga come esperienza. A onor del vero, questo progetto artistico è in compagnia di molti altri che 24/7 raggiungono i giovanissimi e persino i bambini smartphonizzati, ma ci si risveglia quando arrivano in TV, dimenticando che i giovanissimi non stanno tutto il giorno attaccati alla TV dei nonni, ma al minischermo del loro smartphone, magari chiusi in stanze impermeabili alla presenza adulta, nonni compresi.

Nel progetto musicale dei «La Sad», effettivamente, la narrativa legata alla droga è presente. La domanda è: si tratta un'esperienza narrativa superata come sembra suggerire un'intervista pubblicata da Repubblica? Pare di no, se, per esempio, il brano 'Summersad' di giugno 2023, racconta, sì, un'esperienza passata [«E prendevamo droghe per non prender più sonno»], ma anche il presente: «E penso ancora a te fino all'alba / Giro un'altra canna / Fin quando gira tutta la stanza». Giugno 2023. A parte va detto che la rete è un eterno presente: un ragazzino che ascolta oggi una canzone di anni fa, mica trova un avviso in cui si dice che gli artisti non si riconoscono più in questo modello, mica leggono le interviste correttive sui giornali: la ascoltano e basta e la prendono per quel che dice, per quel che racconta qui e ora. 

C'è di più: secondo una recente ricerca pubblicata su 'JAMA Psychiatry' e ripresa anche dall'Ansa «i rischi di depressione grave con ideazioni suicide da adulti, sono risultati più alti del 50% tra chi aveva usato marijuana da adolescente». La ricerca è stata condotta alla McGill university di Montreal da Chiara Gobbi, psichiatra e neuro-scienziata italo-canadese, i cui studi hanno avuto un impatto significativo nel far alzare da 18 a 21 anni l'uso legale di cannabis nella legislazione del Quebec.

Detto questo, c'è da chiedersi come un progetto artistico non ancora lontano dal de-cantar di canne e droga possa essere acriticamente indicato, scelto o deputato dal mainstream ad affrontare il tema del suicidio, nella pur lodevole intenzione di limitarne il fenomeno.

Rimuovere le cause primarie e secondarie di un problema è il DNA di un minimo sistema sia normativo sia educante sia culturale, per il bene della singola persona e la tenuta della comunità di appartenenza. La marijuana, per esempio, è da anni nota come problematica soprattutto se usata in età precoce; eppure non si contano i promotori culturali del suo uso ricreativo, percepito come un passaggio quasi obbligato o comunque non problematico dell'adolescenza; nella musica, sono troppi coloro che la raccontano come esperienza personale; e sono troppi gli adulti che fanno finta di nulla per non sembrare dei boomers, con il risultato che l'esperienza personale narrata dai modelli estetico-artistici apre un processo mimetico-imitativo che trasferisce un comportamento dal piano narrativo a quello esperienziale. Questo vale, ovviamente, per ogni comportamento.

Nei tanti incontri fatti in questi mesi, vedo che i giovanissimi, persino i bambini, non fanno troppi distinguo: quel che piace viene preso come modello. Occorre davvero smettere di pensare che ci sia un pensiero critico innato nei giovanissimi; non esiste alcuna generazione spontanea del pensiero critico, che invece nasce da un lungo lavoro di partnerariato con il mondo adulto che si pone anzitutto come guida culturale, capace di alzarsi sopra la polvere del pensiero dominante con le categorie del bene, del giusto e, perché no?, anche del bello.

Marco Brusati
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