«Sì ai messaggi di odio contro i russi»: con parole di questo tenore, prese a mero titolo esemplificativo da Il Giorno, il 10 marzo scorso si è comunicato che Meta avrebbe tollerato specifici messaggi d'odio sia in Ucraina che in Armenia, Azerbaigian, Estonia, Georgia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Russia, Slovacchia.
Come è noto, Meta è un'impresa statunitense che controlla Facebook, Instagram, WhatsApp, Messenger e il prossimo Metaverso, cui sono collegati oltre 5 miliardi di utenze [cf. Qui Finanza]. Il 15 marzo, dopo schermaglie diplomatiche di livello globale, Nick Clegg, capo degli affari globali di Meta ha ridotto un po' la portata dell'autorizzazione speciale: «al fine di rimuovere qualsiasi ambiguità sulla nostra posizione, stiamo ulteriormente restringendo la nostra linea guida per rendere esplicito che non consentiamo auguri di morte a un capo di stato sulle nostre piattaforme» o la «violenza contro i russi in generale» [Wired].
La Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio ha evidenziato che questa policy «andrebbe in direzione contraria rispetto a tutti gli sforzi fatti negli ultimi anni a tutti i livelli istituzionali -dal Consiglio d’Europa all’Onu e al Parlamento Europeo-» finendo per facilitare «ancora di più la diffusione di odio in un contesto già drammaticamente violento» [Amnesty International Italia]
Questi sono i fatti ridotti all'osso, da cui è bene allontanarsi per osservarli meglio, uscendo dall'insostenibile quanto inutile diatriba tra favorevoli e contrari a questa autorizzazione, andando su un altro piano di pensiero che non è, giova dirlo e ribadidirlo, giustificare in alcun modo alcuna guerra di alcun tipo.
Questa vicenda appare collaterale alla tragedia bellica, mentre riguarda la vita di ognuno di noi, soprattutto quella dei nostri figli e nipoti, perché ha a che fare con la libertà.
La domanda -enorme- è questa: può un privato cittadino o un ente privato decidere cosa può o non può fare la gente mentre si trova sul suo territorio digitale? La risposta ci viene dal calcio: sul campo ci sono regole che fuori non ci sono: per esempio, se non sono un portiere, non posso toccare la palla con le mani, pena calci di punizione o rigori contro la mia squadra. Tuttavia, sul campo di calcio le regole integrano, aggiungono e non sostituiscono quelle decise da un Ente normativo superiore, ovvero lo Stato dove poggia quel campo. Sul campo di calcio non entrerei, per esempio, armato, quand'anche le regole del gioco cambiassero e lo consentissero. Non lo consentirebbe lo Stato. Ovvio, no?
Invece, nel territorio digitale non è così: fuori dal caso specifico, un privato cittadino o un ente privato può decidere di autorizzare o vietare condotte che, al contrario, sono vietate o permesse dall'Ente Regolatore superiore, lo Stato. Questa cosa, detta brutalmente e senza giri di parole, non va bene ed è improcrastinabile un intervento normativo che a mio avviso va fatto su due fronti. Il primo: lo spacchettamento-divisione di imperi digitali oligarchici che hanno raggiunto un potere superiore a quelli di Giudici, Governi, Parlamenti e persino Organismi sovranazionali; il secondo: sottoporre ad autorizzazione pubblica le policy dei Social, impedendo variazioni unilaterali che possano cambiare le carte in tavola a gioco iniziato. Come fare è da discutere. Che sia da fare, credo sia piuttosto chiaro, perché l'odio è una brutta bestia, facile da aizzare e difficile da fermare.
© Marco Brusati
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